I RISULTATI DELLO
SCAVO DI ZUC ‘SCJARAMONT - CASTELRAIMONDO
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1. I primi abitanti
del colle (l’età pre-romana)
Dopo una frequentazione
sporadica probabilmente neolitica e dell’età
del rame, testimoniata
da selci nere scheggiate, raschiatoi e lame rinvenuti
sparsi in superficie
lungo il sentiero che sale alla Forcja e in altri punti della
collina, a Castelraimondo
sorse un vero e proprio insediamento nel IV seco-lo
a.C..
Si trattava di
un villaggio fortificato della tarda Età del Ferro. Era il pe-riodo
in cui, secondo
le recenti ricerche nell’alta pianura del Friuli e della Ve-nezia
Giulia, questo
tipo di insediamento con fortificazioni veniva piuttosto
abbandonato a causa
di una crisi demografica variamente giustificata dagli
studiosi, mentre
sorgevano nella fascia collinare veneta villaggi non fortifica-ti,
costituiti da casette
seminterrate generalmente di un unico vano.
Il villaggio, grazie
alla sua posizione particolarmente strategica (fig. 7),
controllava il
transito di armenti e di materiale ferroso che dalle Alpi rag-giungeva
l’alto Adriatico;
alcune fasi delle attività metallurgiche si svolgeva-no
all’interno dell’insediamento.
Le sue caratteristiche
sono quelle degli insediamenti fortificati protosto-rici
dello stesso periodo
messi in luce su entrambi i versanti dell’arco alpino
orientale: ritroviamo
sia le mura, sia il modo in cui si dispongono i terrazzi ar-tificiali
con muri di contenimento
a secco (figg. 8, 9, 10). Le mura sono ora
ridotte ad uno
sfasciume di pietre (il cosiddetto “allineamento principale”) di
varie dimensioni,
non squadrate e senza malta, con un percorso approssima-tivamente
circolare che,
intorno alla sommità dell’altura, da quota 426 m.
s.l.m., risale
fino a quota 437 sul lato est; a ovest, verso il Planc de la Fontana,
questo allineamento
si prolunga con un braccio singolo che si colloca sul cri-nale
stesso del colle,
in corrispondenza dello scorrimento delle falde. Questo
sfasciume è il
risultato dell’azione di smantellamento di una struttura edifica-ta
dallo sviluppo
lineare, di cui resta il nucleo in grandi pietre poligonali alli-neate
almeno in due filari,
senza uso di malta, contenenti terra e pietre spez-zate
minori. I muri
di terrazzamento sono realizzati con tecnica molto arcai-20
ca, di tipo poligonale,
cioè con blocchi di pietra di grandi e grandissime di-mensioni
dalla forma poligonale,
con connessure spesso irregolari riempite di
pezzame lapideo
minuto. Questo tipo di tecnica muraria si ritrova in fortifi-cazioni
e muri di terrazzamento
di centri d’altura non solo in area alpina, ma
in tutta l’Italia
centrale nell’Età del ferro; bisogna tener presente per questo
come per tutti
gli altri casi di tecniche costruttive di Castelraimondo, che i
modi di realizzazione
di questo tipo di strutture proseguirono molto a lungo
nel tempo soprattutto
in area alpina, per la loro funzionalità ed economicità.
La tecnica costruttiva
dei muri di contenimento ha notevoli affinità con
quella degli edifici
di questa 1 a fase dell’insediamento.
Le abitazioni all’interno
dello spazio circoscritto dalle mura sono del tipo
protostorico seminterrato,
rinvenuto oltre che in area alpina meridionale e
centro-orientale
(Engadina, Tirolo, Lombardia, Trentino, Veneto), anche nel-la
fascia pedemontana
veronese e vicentina, in ambito culturale paleoveneto
(Montebello Vicentino,
Rotzo, Colognola ai Colli, Archi di Castelrotto, Tris-sino,
Santorso, S. Giorgio
di Valpolicella) e retico (Montesei di Serso, Fai del-la
Paganella, Doss
Zelor, Dosso S. Ippolito, Sanzeno), dal V al II secolo a.C..
Sono tagliate nella
roccia (fig. 11), a pianta quadrangolare o rettangolare, con
corridoio d’accesso,
hanno muri a secco formati da alcuni corsi di grandi pie-tre
di forma poligonale,
come fondamenta e base su cui poggiavano pareti e
ordito del tetto
in legno ora perduti; la copertura era probabilmente in ma-teriale
vegetale (frasche,
paglia). L’uso era monofamiliare. La stessa tipologia
è stata individuata
a Montereale Valcellina, dove è datata al V secolo a.C., a
Zuglio - Colle
di S. Pietro, a Flagogna Castelvecchio.
La tecnica edilizia
su cui si basa una costruzione di questo genere, sfrut-ta
al meglio i materiali
reperibili nell’ambiente d’altura con habitat forestale:
alberi d’alto fusto,
in particolare olmi, faggi, querce e pietrame selezionato,
reperito localmente
e trasportato con un’organizzazione necessariamente col-lettiva.
La limitatezza
degli scavi negli altri siti e a Castelraimondo, non ha fino-ra
consentito di accertare
l’esistenza di parti comuni (ad esempio piazza cen-trale,
spazi religiosi,
magazzini e cisterne), né l’organizzazione della struttura
del villaggio,
cioè le strade.
La casa (fig. 12)
del settore di scavo V, il pianoro della Pustòta, orientata
nord-sud con precisione,
desta particolare interesse per le dimensioni insoli-tamente
grandi (m. 15 x
m. 8, contro gli abituali m. 5 x m. 6 propri di questo
tipo di abitazione).
Ha tre ambienti, ma sotto il balzo roccioso a nord, il mu-ro
di fondo non si
appoggia alla parete di roccia, restando autonomamente
staccato, in pietre
non grandissime; è questo un fatto anomalo per le case se-minterrate
che generalmente
sfruttano l’appoggio del pendìo. Il muro inoltre
non è più spesso
né rinforzato per reggere le controspinte del pendìo, quin-21
di forse non si
tratta della parete di fondo della già grande costruzione, pare-te
che poteva essere
più a nord, sotto quello che ora sembra un balzo roccio-so
naturale e che
invece è almeno in parte un enorme crollo di pietre, ricalci-ficate
tra loro, appartenenti
ad una struttura più tarda, della 3 a fase dell’inse-diamento
(si veda il paragrafo
dell’età romana).
Agli angoli dell’ambiente
più a nord, pavimentato in piccole scaglie di
pietra battute
e compresse sulla roccia naturale a regolarizzarla, sono inseri-te
quattro pietre
scistose piatte, secondo una tecnica propria delle abitazioni
retiche seminterrate:
erano basi d’appoggio per i pali angolari, a terminazio-ne
piatta e montati
“alla traditora”, cioè non infissi nel terreno, ma retti in
verticale dal sistema
di spinte e controspinte derivanti dal loro legame all’in-castellatura
interna della casa,
che collegava alzato delle pareti e struttura
portante del coperto.
La parte superiore delle pareti era in legno; il coperto,
in materiale più
deperibile come la paglia, veniva frequentemente rinnovato.
All’inizio del
lungo corridoio che affianca uno degli ambienti, un gradino
obliquo permette
l’accesso alla casa, conforme al pendìo, vòlto a sud per una
migliore esposizione,
e forse per facilitare la relazione con altri edifici più a
valle (fig. 13).
Non sono solo le
dimensioni, la posizione sulla sommità del colle alla
quota più elevata
nonché l’articolazione in più ambienti a segnalare l’impor-tanza
dell’edificio:
l’interesse particolare è dato dai resti di un rito di fonda-zione
rinvenuti sotto
il pavimento del vano centrale (fig. 14). Due cerchi di
pietra tangenti
tra loro, allineati su una linea esattamente est-ovest, sono con-tenuti
all’interno di
un altro più ampio cerchio allo stesso livello, sempre di
pietre semplicemente
infisse nel terreno, che è un conglomerato calcareo na-turale;
non restano tracce
di fuoco. Accanto al più occidentale dei cerchi è sta-to
rinvenuto invece
un oggetto della sfera magico-rituale: un osso di ovino la-vorato,
con due coppie
di fori passanti, che probabilmente è uno strumento
musicale (iynx,
cioè frullo, aerofono o cerca spiriti, fig. 15). I due cerchi di pie-tra
sono dunque il
segno di un rito di fondazione con offerte incruente (vino,
latte, miele?),
eseguito all’aperto prima della costruzione dell’edificio. Resta
difficilmente compatibile
con la presenza del rito l’uso abitativo della costru-zione:
era comune a quasi
tutte le culture antiche la tradizione di non abitare
mai nei o sui luoghi
inaugurati in modo sacro; bisognerebbe comprendere se
il rito rendeva
sacro questo luogo o se era solo un sacrificio propiziatorio alla
costruzione della
casa e dell’intero insediamento, di cui non si è voluta sman-tellare
la struttura sacrificale.
Alcuni casi, in abitazioni della stessa epoca sca-vate
a Padova, indicano
l’esistenza di cerimonie di questo tipo con offerte le-gate
all’acqua e al
fuoco nell’ambito della cultura paleoveneta.
Forse l’abitazione
così particolare apparteneva al personaggio eminente
nella piccola comunità,
il capo o lo stregone, anche se non è possibile esclu-dere
una funzione di
luogo di culto o di riunione per i capi famiglia.
22
I resti scheletrici
di alcuni feti e neonati (fig. 16) sono stati rinvenuti sot-to
il focolare ovoidale
dell’ambiente più a nord, probabilmente sepolti qui se-condo
un uso frequente
in area alpina in età preromana. Altre ossicine sono
state trovate sparse
per la casa, con ogni probabilità accidentalmente sposta-te
insieme ad altri
materiali dal focolare, quando questo venne disfatto nei ri-facimenti
romani dell’edificio
(si veda il paragrafo sull’età romana). Su nu-merose
di queste ossa
sono stati scoperti segni di taglio e fratturazione che
potrebbero essere
connessi alle pratiche chirurgiche dell’embriotomia, com-piute
nell’antichità
per estrarre dall’utero materno creature morte o mal po-sizionate
al momento del
parto. La cruenta operazione abortiva comportava
lo smembramento
del feto, talvolta precedentemente ucciso per pietà con
uno spillo di bronzo.
Il procedimento viene descritto dalle fonti antiche sia
dal punto di vista
scientifico, come nel trattato di ginecologia del medico gre-co
Sorano di Efeso,
vissuto a Roma nel II secolo d.C., sia dal punto di vista
etico, come nel
De anima scritto da Tertulliano nel 210 d.C.. La sepoltura in-terna
all’abitazione
dei bambini piccoli o nati morti, che contravveniva alla ri-gorosa
norma, propria
delle culture mediterranee, di tenere ben distinte le
case dei vivi da
quelle dei morti, si giustifica con il fatto che i bambini fino ai
tre anni non erano
considerati persone, ma forze vitali della famiglia. Come
tali, queste energie
non dovevano essere disperse all’esterno, ma mantenute
all’interno della
casa, nel luogo simbolico di questa, il focolare, o lungo le pa-reti.
L’approvvigionamento
idrico del villaggio doveva trovarsi accanto all’edi-ficio,
a nord-ovest, dove
in epoca moderna è stata realizzata la camera di cap-tazione
dell’acquedotto
e dove dunque esisteva una sorgente.
Un’altra casa,
più piccola e semplice ma dello stesso tipo (fig. 17), divisa
in due ambienti
pressoché rettangolari, è stata trovata nel settore di scavo IV,
più in basso e
più ad ovest, in un quartiere che sulla base dei materiali rinve-nuti
sembra avere avuto
una funzione soprattutto artigianale e produttiva. La
tecnica edilizia
è la medesima dell’edificio del V.
I materiali più
significativi appartenenti a questa 1 a fase (figg. 18, 19, 20,
21, 22) - un frammento
di orecchino in bronzo del tipo Montebello Vicenti-no,
frammenti di una
fibula Medio La Tène, un frammento di ceramica grez-za
con inscritto l’alfabeto
retico, una dracma venetica d’argento, oltre a nu-merosa
ceramica - sono
la prova, da affiancare a quella architettonica, che
nell’insediamento
tra la fine del IV secolo e l’inizio del III a. C. si fondevano
elementi sia della
cultura retica di area alpina sia di quella venetica della pia-nura.
Alcuni materiali
decontestualizzati dagli scavi clandestini, indicati da
testimonianze orali
come provenienti dal colle di Flagogna Castelvecchio, tra
cui la grande fibula
d’argento di tipo Certosa ed altri frammenti di bronzo e
di osso conservati
a Ragogna, insieme a strutture edilizie di tipo simile alla
piccola abitazione
del settore IV, messe in luce in recenti scavi della Soprin-23
tendenza ai Beni
Artistici, Architettonici ed Archeologici del Friuli Venezia
Giulia, fanno ritenere
che appunto a Flagogna sorgesse un altro insediamen-to,
contemporaneo a
quello di Castelraimondo, che formava con questo e for-se
con altri villaggi
vicini un sistema insediativo complesso.
Tra il II e la
metà del I secolo a.C. l’insediamento fu dotato di nuove for-tificazioni
di tipo celtico:
venne eretto un potente murus gallicus (figg. 23, 24)
messo in luce per
una ventina di metri nel settore IV, ma conservato solo per
un’altezza di 30
centimetri circa, corrispondente al livello delle più basse fon-dazioni,
dato che l’alzato
è stato asportato dal forte secolare dilavamento del
terreno lungo il
pendìo. E’ costituito da un paramento esterno di pietre a sec-co
di medie e grandi
dimensioni, da un riempimento a sacco in terra e pie-trame,
e da una struttura
interna in legno; si aggancia agli elementi naturali
emergenti, rocce
approntate dall’uomo. Al paramento si appoggiava, ne re-stano
tracce, un terrapieno
o rampa interna in terra argillosa mista a minuto
pietrame, che aggiunto
allo spessore del muro (m. 2,40/2,80), dà luogo ad
una fortificazione
larga ben m. 11 (fig. 25, 26). Della struttura lignea restano
numerose buche
di palo per sistemare pali verticali e obliqui (fig. 27); sul fon-do
di queste buche,
come base d’appoggio di pali a terminazione piatta - più
adatti a resistere
col maggior spessore all’umidità del terreno -, c’è una pietra
piatta, il più
delle volte scistosa come quelle degli angoli dell’edificio del set-tore
V; in un caso si
tratta di una delle piccole macine trovate nel settore IV,
in pietra proveniente
dalla zona del Predil, un centinaio di chilometri più a
nord, rilievo noto
per le miniere di ferro sfruttate fin dall’età protostorica.
L’ingresso verso
ovest era probabilmente realizzato con un ripiegamento con-vergente
dei muri nord e
sud, “a forcipe”, noto anche in altri siti (fig. 28), ed
era difeso da un
fossato artificiale ancora ben riconoscibile, che taglia anche
oggi il colle.
La tipologia del murus gallicus, diffusa nell’Europa celtica, e de-scritta
dettagliatamente
da Cesare (De bello Gallico VII, 23) a proposito del-l’assedio
di Avaricum, è
per il momento l’unico esempio individuato nel ver-sante
alpino italiano.
Le macine come
le cote in granito per affilare lame, grandi scorie di la-vorazione
ferrose e colature
di bronzo rinvenute in questo settore IV, fanno
pensare ad impianti
produttivi, anche legati alla lavorazione dei metalli, in
questa parte dell’insediamento.
Essi sarebbero posti a nord, in un versante
aperto e ventilato,
come è necessario e come si ritrova costantemente nella
collocazione delle
fornaci antiche.
Il villaggio in
quest’epoca si ampliò ad ovest, all’esterno del castelliere più
antico, verso l’ingresso
dell’abitato dove i due muri nord e sud convergeva-no,
probabilmente con
un’espansione di carattere commerciale e produttiva
così importante
da dover essere difesa dalle nuove opere di fortificazione.
L’insediamento
pare rientrare tra i siti fortificati stabilmente abitati, di di-24
mensioni più ridotte
e spesso più antichi dei grandi oppida, corrispondenti
probabilmente a
quelli che Cesare (De bello Gallico II, 29; III, 1) e altre fon-ti
letterarie coeve
definiscono “castella”.
Il problema della
celtizzazione del Friuli settentrionale resta comunque
più che mai aperto,
anche alla luce delle nuovissime scoperte, in particolare
la necropoli di
Paularo ed il santuario di Raveo Monte Sorantri. Il murus gal-licus
di Castelraimondo
costituisce, in questo quadro ancora non definito, un
ulteriore elemento
a favore della presenza, alla metà del II secolo a.C., di per-sone
di cultura celtica
transalpina, forse guerrieri mercenari, portatori di nuo-ve
idee e nuove tecniche
edilizie in una società indigena tradizionale già dis-sestata
dalla forza attrattiva
della cultura romana ormai ampiamente presen-te
in pianura e sulla
costa.
I miglioramenti
edilizi nell’insediamento di Castelraimondo sono opera
di popolazioni
non romane per tradizioni e cultura, ma sempre più legate al
mondo romano, e
sul finire di questa fase esplicitamente aperte ai commerci
con esso, come
rivelano anfore, ceramica a vernice nera e ceramica grigia di
produzione padana
qui ritrovate. La concomitante presenza di scorie, bloc-chetti
di ematite provenienti
dalle miniere del Canal del Ferro e pietre dalla
stessa zona mineraria,
sono indizi che dal II secolo a.C. l’espansione del vil-laggio
era legata ai commerci
dei minerali alpini, alle loro lavorazioni e so-prattutto
al loro trasporto
verso l’area centroveneta: era una tappa lungo una
scorciatoia (la
vallata dell’Arzino), o forse un percorso più sicuro, di crinale,
lontano dalle bassure
pericolose del Tagliamento.
Il potenziamento
di Castelraimondo sembra conseguente alla fondazione
della colonia latina
di Aquileia (181 a.C.) e all’impulso che questa portò nel-l’economia
non solo dei territori
limitrofi, ma anche dell’entroterra alpino. La
grande necessità
di materie prime che comportò la costruzione della nuova
città romana, in
particolare il legname, ma anche le derrate tipiche di un por-to
commerciale e militare
come carni salate, formaggi e lane, pece, tessuti,
cordame, trovarono
risposta non tanto nell’immediato retroterra colonizzato
e dunque di uso
strettamente agricolo, con colture intensive escludenti pa-scoli
e aree boschive,
ma appunto in questa fascia pedemontana e mediocol-linare
dove la tradizionale
economia della selva, dell’allevamento e della cac-cia
si integrava con
le nuove prospettive del trasporto e del commercio, sen-za
essere ostacolata
dall’impiantarsi di un’agricoltura parcellizzata.
2. Un insediamento
militare (l’età romana)
La militarizzazione
del Friuli avvenne per opera di Giulio Cesare tra il 58
e il 51 a.C. a
seguito del saccheggio di Tergeste (Trieste) da parte dei Giapidi
(De bello Gallico
I, 10). Vennero così installate a guardia permanente di que-25
sto territorio
almeno quattro legioni e furono costruiti diversi centri fortifi-cati:
i castella e gli
oppida di Tricesimo, Osoppo e Gemona, nonché la stessa
città di Iulium
Carnicum (Zuglio).
Successivamente,
durante le campagne danubiane dell’età augustea, que-sta
zona non fu mai
completamente smilitarizzata, nonostante la linea delle
Alpi Giulie fosse
in quell’epoca un retrofronte abbastanza pacifico. Il con-trollo
militare delle
vallate alpine fu mantenuto ed anzi rinforzato per assicu-rare,
oltre al controllo
delle vie militari, anche il buon funzionamento del cur-sus
publicus (servizio
postale militare) istituito da Augusto per dirigere da
Aquileia le armate
in Germania e per reprimere il brigantaggio, pericoloso
per mercanti, viaggiatori
e pastori. Le torri di guardia e di segnalazione a vi-sta
collegavano i distaccamenti
militari.
In questo quadro
generale rientra la torre quadrata del settore IV (figg.
29, 30, 31), costruita
tra la fine del I secolo a.C. e l’inizio del I d.C., come in-dica
la datazione dei
materiali rinvenuti nelle fondazioni: frammenti di anfo-re,
una fibula di tipo
“Aucissa” e monete romane tardorepubblicane. La tor-re,
con i suoi m. 5,90
di lato di cui restano pochi filari di pietre in alzato, ri-vela
l’importanza di
Castelraimondo nella gerarchia degli abitati indigeni ro-manizzati
della zona. La
tecnica costruttiva di questo nuovo edificio è com-pletamente
differente rispetto
all’edilizia locale preromana: spezzoni di pie-tra
locale calcarea,
di piccole dimensioni, sono regolarizzati solo nella faccia
esterna del muro
e legati da ottima malta; la loro disposizione è a dente ri-spetto
alle due facce
- interna ed esterna - della muratura: la punta della pie-tra
grossolanamente
piramidale è volta verso l’interno del muro, il cui nucleo
centrale è costituito
da pezzame più minuto ed irregolare, gettato a sacco e
legato con malta.
L’esterno era intonacato come in altre torri analoghe lungo
il limes (confine
dell’impero), e la copertura del tetto era in laterizi. Come in
altre torri alpine
romane, alcuni elementi di rinforzo degli angoli e dei con-torni
delle aperture,
quali architravi e archivolti, erano in travertino. Lateral-mente,
a nord e a sud,
due coppie di pilastri di sostegno (fig. 32), contempo-ranei
alla costruzione
della torre, si legano ad essa tramite un’intercapedine
di malta e non
con ammorsature nella muratura; probabilmente la loro fun-zione
era anche di raccordo
con le mura difensive. La connessione tra la tor-re
e il murus gallicus
è evidente, anche se non è stato possibile metterne in lu-ce
il punto di contatto;
il nuovo edificio si inseriva a difesa del punto più de-licato
e più appariscente
della fortificazione: l’ingresso ovest.
La torre, oltre
alla funzione difensiva, di controllo e di segnalazione, as-sumeva
un valore di segno
della potenza romana e quindi di deterrente psi-cologico
nei confronti delle
popolazioni indigene, non abituate a questo tipo
di costruzioni
che rendevano esplicito il fatto che l’impero si era appropriato
del territorio.
26
Le fonti antiche
(Velleio 2, 95, 1-3; Cassio Dione 54, 22, 5; Ovidio, Tri-stia,
IV, 2, 37-42; Orazio,
Carmina, 4, 14, 10-13; Floro 4, 12, 4 ss. e 2, 22) ri-cordano
come ferocissima
la resistenza delle popolazioni alpine alla penetra-zione
dell’armata di
P. Silius Nerva nel 16 a.C. e particolarmente duri i prov-vedimenti
presi dai Romani:
rastrellamenti, distruzione degli insediamenti
montani fortificati
e delle rocche della popolazione locale alpina, deportazio-ne
in massa degli
uomini come truppe ausiliarie sul limes germanico. Oltre al-la
Val Trompia, la
Val Camonica, la Valtellina, furono interessate a questi av-venimenti
anche le valli
minori dell’alto Friuli, attraverso le quali erano pe-netrati
in Istria i Pannonici
e i Norici che il generale Nerva ricacciò indietro,
nell’ambito delle
sue operazioni alpine.
Nel settore V,
in questa 3 a fase, il grande edificio subì il rifacimento del
tetto in laterizi,
tegole ed embrici, e altre migliorìe nel muro ovest e nella pa-vimentazione
- sia a scaglie
in un battuto di malta sia in sola malta -, che com-portarono
il disfacimento
del focolare dell’ambiente settentrionale, ora divi-so
da un elemento
ligneo, con la relativa dispersione dei resti ossei infantili,
da quest’epoca
non più seppelliti all’interno degli edifici del villaggio. I cam-biamenti
rivelano la cultura
edilizia romana, fondata sull’uso di un eccellen-te
legante.
Ora l’edificio
è confrontabile con le costruzioni private di tutta la Cisal-pina
(cioè l’Italia
settentrionale entro la cerchia alpina) ed in particolare con
quelle di Iulium
Carnicum (Zuglio), costituite da ambienti di piccole dimen-sioni,
allineati e contigui,
rinvenute sotto il lastricato del foro.
Sul balzo a nord
della casa, alla fine del I secolo a.C., venne costruita
un’altra torre
quadrata di vedetta. Sono rimasti evidenti gli ammorsamenti di
grossi blocchi
parallelepipedi e l’approntamento della roccia per ricevere
l’ambiente di forma
quadrata. Tutto è stato asportato nel tempo e ulterior-mente
dissestato dalla
moderna camera dell’acquedotto che si appoggia al ri-lievo.
Lungo il pendìo
sono i resti del crollo della torre, in blocchi parallele-pipedi,
uguali e nella
stessa tecnica delle migliorìe del muro ovest della casa,
e quindi contemporanee
ad esse. Secondo i geologi quasi tutto l’attuale bal-zo
roccioso a ridosso
del quale si trova la casa, è costituito dalla maceria ri-calcificata
di questa torre
che doveva essere imponente (fig. 33). La posizio-ne
è dominante su
entrambe le vallate dell’Arzino e del Tagliamento, molto
migliore di quella
della torre del settore IV.
A questa fase va
riferito anche il muro in pezzame di pietra legato con
malta individuato
nello scavo 1985 nel settore I, trenta metri più in basso e
più a sud del V.
Era forse parte di un edificio o di strutture usate in quel pe-riodo,
come indicano i
materiali rinvenuti. Nello stretto terrazzo ancora sot-tostante,
uno scavo clandestino
del 1990 ha messo in luce un altro muro ana-logo:
sembra che in questa
3 a fase il versante sud del colle fosse occupato da
27
una serie di costruzioni
altimetricamente correlate, ormai irrecuperabili per il
dissesto del pendìo
e per i numerosi scavi clandestini (fig. 34).
Continuava ad essere
attivo il quartiere artigianale del settore IV, che pro-duceva
anche leghe metalliche
tipiche della romanità. Potrebbero essere fab-bricate
localmente le numerose
punte di lancia e di freccia trovate qui, o le
due piccole matrici
in pietra per ghiande missili (proiettili) metalliche, rinve-nute
al settore V. Si
nota la comparsa di vasellame fine da mensa, ceramica
comune e a pareti
sottili, prodotta nell’area padana, sempre nel settore V
(figg. 35, 36,
37, 38, 39).
Si manifesta una
differenziazione tra i due grandi settori di scavo: il IV era
più accentuatamente
artigianale e di rango inferiore rispetto al V, con una
percentuale di
anfore, frammentarie, decisamente notevole, dalla seconda
metà del I a.C.:
l’approvvigionamento di derrate alimentari, contenute e tra-sportate
in questi recipienti,
e il numero di oggetti d’uso era sensibilmente
aumentato. La quantità
di resti anforari nell’arco di tempo compreso tra la
metà del II secolo
a.C. e la metà del II d.C. (oltre 100 contenitori) è insolita
negli insediamenti
d’altura alpini, tanto da far pensare ad un centro di com-mercio
e di smistamento
piuttosto importante: il materiale proveniva dai
grandi centri urbani
della pianura romanizzata; non è possibile sapere se si
trattasse di uno
scambio con prodotti dell’economia tradizionale (ancora me-talli,
lane, formaggi,
legname) o se questa migliorata qualità di vita fosse le-gata
alla presenza di
personale militare o civile, ma comunque alle dipenden-ze
del potere centrale,
abituato ad un altro tenore di vita da non abbandona-re
completamente neppure
in questa sede decentrata.
Per un paio di
secoli non ci furono sostanziali modifiche nelle strutture
edilizie, eccellentemente
mantenute: all’inizio del III secolo d.C. il rafforza-mento
delle fortificazioni
e dei punti di controllo esistenti, dopo le prime in-cursioni
dei germanici Quadi
e Marcomanni nel 167 d.C., faceva parte della
nuova strategia
dell’impero, che non si limitava alla rigida difesa di confine e
a quella arretrata
che intercettava il nemico nel territorio imperiale, ma esten-deva
un più stretto
regime di controllo anche alle retrovie, agli assi viari val-livi
ed in particolare
all’area alpina orientale.
Intorno al 275
d.C., crollarono i tetti degli edifici nei settori IV e V: l’even-to,
un sisma o un violento
fatto militare, è datato in tutte le strutture dal ritro-vamento
di monete di quegli
anni, come quelle dell’imperatore Probo (276-282
d.C.; si veda la
fig. 40) o di Floriano (275 d.C.), negli strati di crollo. La cata-strofe
non fu inattesa:
le abitazioni erano vuote degli occupanti, ma non abban-donate;
vasetti di ceramica,
soprattutto grezza, in entrambi i settori di scavo so-no
stati trovati lungo
il perimetro degli ambienti frantumati e perfettamente ri-componibili,
caduti da mensole
sospese alle pareti o collocati lungo i muri.
28
L’importanza strategica
del sito è dimostrata dagli immediati restauri e ri-costruzioni
delle strutture,
appartenenti alla 4 a fase di vita dell’insediamento.
Nel settore V (figg.
41, 42, 43), il grande edificio fu ampliato nella parte
nord da nuovi muri
aderenti al balzo roccioso e non più distaccati pericolosa-mente
da questo. Sono
in blocchetti di pietra regolarizzati solo sulla faccia
esterna, disposti
sui margini esterno ed interno del muro riempito poi con pez-zame
lapideo secondo
la tecnica in uso nell’arco alpino romano, ma utilizzan-do
abbondante malta
di ottima qualità, arricchita da grossi grumi di laterizio
grossolanamente
macinato (caratteristica edilizia che sembra comparire fuori
dall’Italia nel
III secolo e poi diffondersi anche nella pianura padana). Il crollo
del precedente
edificio fu utilizzato come sottofondazione pavimentale che mi-gliorò
la qualità dell’abitazione,
isolandola dall’umidità del terreno, e permise
di unificare i
due grandi ambienti settentrionali, alzando il piano di calpestìo e
cancellando la
base del muro divisorio. Le pareti furono intonacate, come te-stimoniano
numerosi frammenti,
talora anche ricurvi, come quelli in prossimità
di porte o finestre.
Il coperto era sempre in laterizi: tegole ed embrici.
La torre del settore
IV venne ripristinata nella sua altezza. La casetta di
questo settore
fu restaurata nell’angolo sud-est, sempre senza uso di leganti;
la copertura era
sempre in materiale deperibile, forse paglia, fermata da scan-dole
di arenaria.
I materiali rinvenuti
- una notevole quantità di armi, fibbie dell’abbiglia-mento
militare - indicano
il carattere ormai completamente militare del sito.
Alcuni pezzi, tra
cui un tribulus (strumento con raggi acuminati da gettare
nel terreno per
ostacolare l’avanzata della cavalleria), rinvenuto nei pressi
della casa del
settore IV, potrebbero esser stati fabbricati in loco (figg. 44-51).
Alla fine del IV
secolo ci fu un generale spostamento della popolazione
civile sulle alture,
con una nuova utilizzazione di strutture precedenti di ca-rattere
prevalentemente
militare.
La notizia riferita
da Agostino (Civ. V, 26) che dopo la battaglia del fiu-me
Frigido (394 d.C.)
con la quale l’imperatore Teodosio I vinse i ribelli pa-gani
guidati dal franco
Arbogaste, in alcune fortezze alpine statue di Giove
furono buttate
dalle alture, si lega suggestivamente all’antichissima leggenda
secondo cui un
vitello d’oro sarebbe stato gettato dalla cima del colle di Ca-stelraimondo
nell’Arzino.
L’assedio e la
presa di Aquileia da parte del visigoto Alarico nel 401 e
quindi la sostituzione
da parte dei Romani dell’asse di comunicazione Aqui-leia-
Milano con quello
Milano-Ravenna, tagliarono fuori il Friuli dalle strut-ture
portanti dell’impero,
contribuendo all’instaurarsi di nuovi modelli inse-diativi
arroccati sulle
alture. I refugia ben noti in area alpina, erano ampi re-cinti
fortificati, in
grado di accogliere popolazione e bestiame, cisterne, de-positi,
abitazioni attorno
all’edificio di culto cristiano. I refugia riconosciuti
29
in area austriaca,
svizzera e slovena, sono caratterizzati però da un’occupa-zione
discontinua e da
una tecnica di costruzione sommaria, dettata dalla ne-cessità
di erigere in fretta
una protezione contro un pericolo imminente; solo
più tardi, dal
VI secolo, avranno torri e postazioni strategicamente studiate,
con l’insediarsi
all’interno del refugium di un’autorità religiosa e civile insie-me
che coordinerà
la comunità. Castelraimondo comunque, per le caratteri-stiche
morfologiche del
colle, non si prestava a dar rifugio a una popolazione
numerosa con armenti,
magazzini e depositi: anche sotto questo aspetto, la
sua natura militare
sembra confermata; inoltre le grandi ville dell’alta pianu-ra
continuano ad essere
abitate per tutto il IV secolo. I soldati potevano es-sere
milizie territoriali
in funzione locale o truppe ausiliarie della base di Con-cordia
o di Aquileia.
La fortezza restò
militarmente attiva per tutto il IV secolo, nell’ambito
dell’organizzazione
difensiva romana basata su un duplice sistema di fortifi-cazioni:
uno sul limes renano-danubiano
e un secondo nella regione alpina.
La zona difensiva
nord-orientale divenne di straordinaria importanza fra IV
e V secolo: nel
territorio di Forum Iulii (Cividale) dalla seconda metà del III
secolo e soprattutto
dall’imperatore Diocleziano (284-305 d.C.) in poi, era in-serito
il comando, sempre
più cresciuto d’importanza, a protezione dell’in-gresso
in Italia da nord-est.
Intorno al 430
d.C. un evento bellico di grande violenza distrusse l’insedia-mento
di Castelraimondo:
nel settore V un incendio devastò l’edificio ad ecce-zione
dell’angolo nord-est;
con il fuoco e il successivo abbandono le pietre cal-caree
della torre crollata
si ricompattarono, confondendosi con la roccia natu-rale.
Nel settore IV
furono accanitamente abbattute la torre e le altre case.
Si concluse con
questa furia distruttiva, che dimostra l’importanza strate-gica
della postazione
vinta, l’ultima fase di vita romana del colle.
3. Il declino dell’insediamento
(l’età post-romana)
Dopo la distruzione
della metà del V secolo d.C., anche Castelraimondo
fu abbandonato
per alcuni decenni, in concomitanza con la distruzione di
Emona (Lubiana),
di Iulium Carnicum, degli edifici romani di Invillino, con
la gravissima crisi
di Aquileia e con l’abbandono delle ville rustiche dell’alta
pianura friulana:
erano gli anni del progressivo disfacimento dell’Impero
d’Occidente (la
caduta, come si è detto, è del 476 d.C.). In un quadro di ir-reversibile
dissesto, si aveva
la rapida trasformazione degli schemi del popo-lamento
romano, rimasti
sostanzialmente inalterati per quattro secoli. Le cau-se,
molteplici e da
lungo tempo presenti nel sistema di potere dell’impero,
convergendo tutte
insieme, determinarono questa crisi.
30
Le strutture del
settore V, spogliate delle pietre sciolte e dell’intonaco da
trasformare in
calce, furono rioccupate nella parte settentrionale più protet-ta,
sfruttando i muri
ancora in piedi (fig. 52); la copertura era eterogenea, for-mata
da laterizi di
recupero e strame. Furono costruiti annessi rustici in legno
e palizzate. Animali
e uomini convivevano ora negli stessi spazi, e ciò pro-dusse
uno strato archeologico
di terreno nerissimo (fig. 53) - il “dark earth”
tipico dell’età
altomedioevale anche in ambito urbano -, ricco di reperti ce-ramici
e scarti di pasto,
dovuto alla difficoltà di controllo dei fattori ambien-tali
e dello smaltimento
dei rifiuti, che rivela un netto scadimento nella qua-lità
di vita dell’insediamento.
Il settore IV pare
in questa 5 a fase abbandonato, anche se è complessa e
non precisabile
la datazione della ceramica grezza post-romana che resta a
lungo identica
nel tempo e che costituisce praticamente la maggior parte di
materiale rinvenuto
in questi strati.
Nessun reperto
ceramico o metallico è riferibile a culture non latine, cioè
ai Germani o ai
Longobardi che irruppero nel territorio e che sembra fosse-ro
attestati nella
vicina Anduins. L’attacco longobardo diretto alla fortezza di
Forum Iulii e non
ad altri centri, dimostra che quella era non solo la sede
amministrativa
dell’intera zona, ma l’anello principale della catena di prote-zione
dell’Italia del
nord. Sulle alture e nella pianura di questa zona militare
erano disposti
centinaia di castelli e fortini: ce lo tramandano le fonti dell’e-poca,
come Venanzio Fortunato
che in un passo della Vita S. Martini (4, 655-
656) descrive l’itinerario
ancora in uso nel VI secolo lungo il Tagliamento e
la strada pedemontana
verso il Veneto, controllata da alcuni castella tra cui
c’era anche Castelraimondo:
il termine castellum indica che l’aspetto arroc-cato
e fortificato dichiarava
ancora nel VI secolo la natura militare dell’inse-diamento
che il nostro aveva
avuto in passato, ma ora non più. Sembra più
probabile si trattasse
di un refugium, con abitazioni in legno; di edifici reli-giosi
per ora non c’è
traccia. Unico elemento religioso cristiano, ascrivibile a
questa fase o alla
successiva, è la presenza di una buca di palo alla sommità
del rudere della
torre del V, nel punto più alto del colle: su una della pietre
che contornano
come di consueto la buca, è profondamente incisa una croce
con estremità apicate;
non è escluso, ma è impossibile accertarlo, che nella
buca fosse infissa
una croce di legno.
L’insediamento
di Castelraimondo, rifugio di pastori e di poverissima
gente, proseguì
fino alla fine del VII secolo d.C., quando un terremoto ab-batté
i residui muri
del settore V, causando un nuovo lungo abbandono che
chiuse la 5 a fase abitativa.
Sul suolo formato
da un secolare uso prativo, probabilmente nel IX se-colo,
in un periodo non
precisabile ulteriormente, fu costruito un nuovo
complesso nel settore
V. Era integralmente in legno (figg. 54, 55). Dell’am-31
biente più grande,
l’unico riconoscibile, si leggono in negativo ancora oggi le
impronte di appoggio
delle strutture, sulle pietre del crollo della torre ai pie-di
del balzo roccioso.
Una parte della struttura era certo un fienile, come te-stimoniano
pollini di erbe
fiorite individuati dalle analisi archeobotaniche, in
assenza di qualunque
testimonianza di strutture.
Tra la fine del
IX e l’inizio del X secolo, anche il settore IV offrì un rifu-gio
temporaneo o una
modestissima abitazione nei ruderi della torre ancora
in piedi.
Il periodo corrisponde
ad una ripresa economica e demografica del Friu-li,
legata al miglioramento
climatico, nonostante le terribili incursioni degli
Ungari (fig. 56).
In queste ultime
fasi, in cui il materiale archeologico quando non è cera-mica
grezza, pressoché
immutabile nel tempo, è però rimescolato e prove-niente
dagli strati inferiori,
sono possibili le datazioni spesso grazie alle ana-lisi
al carbonio-14
(si veda il paragrafo sullo studio dei materiali).
E’ per queste analisi,
che datano alcuni fuochi tra l’885 e il 950, che nei
ruderi della torre
del IV si può ipotizzare un rifugio periodico o occasionale
da parte probabilmente
di pastori o viandanti.
L’abbattimento
per cause naturali od umane del muro di fortificazione sul
ciglio nord, che
conteneva anche il terrapieno artificiale retrostante, causò lo
smottamento e accelerò
il già accentuato dilavamento che trasformò l’aspet-to
del pianoro, spargendo
pietre degli edifici antichi su tutto il pendìo nord
del settore IV.
4. L’abbandono,
il castello e la chiesa (l’età medioevale e rinascimentale)
Nei secoli seguenti
la sommità del colle fu destinata ad un uso esclusiva-mente
agricolo e prativo.
Il toponimo locale Pustòta, cioè luogo coltivato e
poi abbandonato,
che designa il settore V, testimonia questo uso, di cui re-stano
tracce forse tardo-rinascimentali
- come indicano alcuni frammenti ce-ramici
rinvenuti - nelle
fosse per viti o alberi da frutto che comportarono la
spoliazione di
grandi pietre da reimpiegare.
Sul costone più
occidentale, nei saggi dei settori di scavo II e III, aperti
in seguito agli
interventi clandestini, sono stati recuperati materiali ceramici
e metallici riferibili
ai secoli XIII e XIV, mescolati a quelli delle epoche pre-cedenti.
Le murature rinvenute
e un pozzo sono di età diverse. Dal momen-to
che nei settori
IV e V, indagati sistematicamente, non sono stati pratica-mente
rinvenuti oggetti
riferibili al Medio Evo, probabilmente il castello me-dioevale,
teatro di fosche
vicende nelle lotte tra il Patriarcato di Aquileia e il
Ducato di Gorizia,
e documentato unicamente dalle antiche cronache rac-32
colte dal Biasutti,
era situato in questa parte del colle. Da collocarsi tra l’an-no
Mille e la fine
del XIII secolo, a mezza costa, in un’occupazione ex novo
di una parte del
colle non ingombra di ruderi precedenti, forse era a piccoli
nuclei di case,
come sostiene Biasutti sulla scorta della sua documentazione,
e non era stato
voluto come elemento di aggregazione e riorganizzazione del
territorio, ma
si qualificò come un intervento politico e di potere molto spe-cifico;
per questo, una
volta modificatasi la situazione politica che lo aveva
determinato, il
castello non ebbe prosecuzione insediativa. Le cronache par-lano
dell’ultima, violenta
e radicale distruzione nel 1348, e i pochi resti, scon-volti
dagli scavi clandestini,
sono illeggibili.
Ai piedi della
collina, in località Sintignella (settore VI), a 300 metri a est
del quartiere abitativo
romano, sorse nel XIII secolo la chiesetta di S. Agne-se,
demolita intorno
al 1609. Orientata ad est, era ad unica navata, con pian-ta
rettangolare ed
abside quasi quadrata, costruita in pietre squadrate in pic-colo
apparecchio, tecnica
tipicamente medioevale (fig. 57). E’ stata indagata
dagli scavi del
1988 (fig. 58). E’ apparsa completamente depredata di tutti i
materiali edilizi
asportabili, pavimenti e sottofondazioni comprese, secondo
una prassi diffusa
nei secoli XVII, XVIII e XIX in questi luoghi e rivelatrice
di grandissima
povertà.
Il poco materiale
rinvenuto nello scavo, in prevalenza frammenti laterizi,
ceramica grezza
e comune, confermano la datazione al XIII secolo dell’edifi-cio
sacro, che non
pare connesso al castello medioevale, molto distante ad
ovest, ma sembra
piuttosto legato allo sviluppo degli inferiori borghi di For-garia,
che caratterizzerà
l’età moderna, determinando l’abbandono definitivo
del colle.
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