I RISULTATI DELLO SCAVO DI ZUC ‘SCJARAMONT - CASTELRAIMONDO

 

 

1. I primi abitanti del colle (l’età pre-romana)

 

Dopo una frequentazione sporadica probabilmente neolitica e dell’età

del rame, testimoniata da selci nere scheggiate, raschiatoi e lame rinvenuti

sparsi in superficie lungo il sentiero che sale alla Forcja e in altri punti della

collina, a Castelraimondo sorse un vero e proprio insediamento nel IV seco-lo

a.C..

Si trattava di un villaggio fortificato della tarda Età del Ferro. Era il pe-riodo

in cui, secondo le recenti ricerche nell’alta pianura del Friuli e della Ve-nezia

Giulia, questo tipo di insediamento con fortificazioni veniva piuttosto

abbandonato a causa di una crisi demografica variamente giustificata dagli

studiosi, mentre sorgevano nella fascia collinare veneta villaggi non fortifica-ti,

costituiti da casette seminterrate generalmente di un unico vano.

Il villaggio, grazie alla sua posizione particolarmente strategica (fig. 7),

controllava il transito di armenti e di materiale ferroso che dalle Alpi rag-giungeva

l’alto Adriatico; alcune fasi delle attività metallurgiche si svolgeva-no

all’interno dell’insediamento.

Le sue caratteristiche sono quelle degli insediamenti fortificati protosto-rici

dello stesso periodo messi in luce su entrambi i versanti dell’arco alpino

orientale: ritroviamo sia le mura, sia il modo in cui si dispongono i terrazzi ar-tificiali

con muri di contenimento a secco (figg. 8, 9, 10). Le mura sono ora

ridotte ad uno sfasciume di pietre (il cosiddetto “allineamento principale”) di

varie dimensioni, non squadrate e senza malta, con un percorso approssima-tivamente

circolare che, intorno alla sommità dell’altura, da quota 426 m.

s.l.m., risale fino a quota 437 sul lato est; a ovest, verso il Planc de la Fontana,

questo allineamento si prolunga con un braccio singolo che si colloca sul cri-nale

stesso del colle, in corrispondenza dello scorrimento delle falde. Questo

sfasciume è il risultato dell’azione di smantellamento di una struttura edifica-ta

dallo sviluppo lineare, di cui resta il nucleo in grandi pietre poligonali alli-neate

almeno in due filari, senza uso di malta, contenenti terra e pietre spez-zate

minori. I muri di terrazzamento sono realizzati con tecnica molto arcai-20

ca, di tipo poligonale, cioè con blocchi di pietra di grandi e grandissime di-mensioni

dalla forma poligonale, con connessure spesso irregolari riempite di

pezzame lapideo minuto. Questo tipo di tecnica muraria si ritrova in fortifi-cazioni

e muri di terrazzamento di centri d’altura non solo in area alpina, ma

in tutta l’Italia centrale nell’Età del ferro; bisogna tener presente per questo

come per tutti gli altri casi di tecniche costruttive di Castelraimondo, che i

modi di realizzazione di questo tipo di strutture proseguirono molto a lungo

nel tempo soprattutto in area alpina, per la loro funzionalità ed economicità.

La tecnica costruttiva dei muri di contenimento ha notevoli affinità con

quella degli edifici di questa 1 a fase dell’insediamento.

Le abitazioni all’interno dello spazio circoscritto dalle mura sono del tipo

protostorico seminterrato, rinvenuto oltre che in area alpina meridionale e

centro-orientale (Engadina, Tirolo, Lombardia, Trentino, Veneto), anche nel-la

fascia pedemontana veronese e vicentina, in ambito culturale paleoveneto

(Montebello Vicentino, Rotzo, Colognola ai Colli, Archi di Castelrotto, Tris-sino,

Santorso, S. Giorgio di Valpolicella) e retico (Montesei di Serso, Fai del-la

Paganella, Doss Zelor, Dosso S. Ippolito, Sanzeno), dal V al II secolo a.C..

Sono tagliate nella roccia (fig. 11), a pianta quadrangolare o rettangolare, con

corridoio d’accesso, hanno muri a secco formati da alcuni corsi di grandi pie-tre

di forma poligonale, come fondamenta e base su cui poggiavano pareti e

ordito del tetto in legno ora perduti; la copertura era probabilmente in ma-teriale

vegetale (frasche, paglia). L’uso era monofamiliare. La stessa tipologia

è stata individuata a Montereale Valcellina, dove è datata al V secolo a.C., a

Zuglio - Colle di S. Pietro, a Flagogna Castelvecchio.

La tecnica edilizia su cui si basa una costruzione di questo genere, sfrut-ta

al meglio i materiali reperibili nell’ambiente d’altura con habitat forestale:

alberi d’alto fusto, in particolare olmi, faggi, querce e pietrame selezionato,

reperito localmente e trasportato con un’organizzazione necessariamente col-lettiva.

La limitatezza degli scavi negli altri siti e a Castelraimondo, non ha fino-ra

consentito di accertare l’esistenza di parti comuni (ad esempio piazza cen-trale,

spazi religiosi, magazzini e cisterne), né l’organizzazione della struttura

del villaggio, cioè le strade.

La casa (fig. 12) del settore di scavo V, il pianoro della Pustòta, orientata

nord-sud con precisione, desta particolare interesse per le dimensioni insoli-tamente

grandi (m. 15 x m. 8, contro gli abituali m. 5 x m. 6 propri di questo

tipo di abitazione). Ha tre ambienti, ma sotto il balzo roccioso a nord, il mu-ro

di fondo non si appoggia alla parete di roccia, restando autonomamente

staccato, in pietre non grandissime; è questo un fatto anomalo per le case se-minterrate

che generalmente sfruttano l’appoggio del pendìo. Il muro inoltre

non è più spesso né rinforzato per reggere le controspinte del pendìo, quin-21

di forse non si tratta della parete di fondo della già grande costruzione, pare-te

che poteva essere più a nord, sotto quello che ora sembra un balzo roccio-so

naturale e che invece è almeno in parte un enorme crollo di pietre, ricalci-ficate

tra loro, appartenenti ad una struttura più tarda, della 3 a fase dell’inse-diamento

(si veda il paragrafo dell’età romana).

Agli angoli dell’ambiente più a nord, pavimentato in piccole scaglie di

pietra battute e compresse sulla roccia naturale a regolarizzarla, sono inseri-te

quattro pietre scistose piatte, secondo una tecnica propria delle abitazioni

retiche seminterrate: erano basi d’appoggio per i pali angolari, a terminazio-ne

piatta e montati “alla traditora”, cioè non infissi nel terreno, ma retti in

verticale dal sistema di spinte e controspinte derivanti dal loro legame all’in-castellatura

interna della casa, che collegava alzato delle pareti e struttura

portante del coperto. La parte superiore delle pareti era in legno; il coperto,

in materiale più deperibile come la paglia, veniva frequentemente rinnovato.

All’inizio del lungo corridoio che affianca uno degli ambienti, un gradino

obliquo permette l’accesso alla casa, conforme al pendìo, vòlto a sud per una

migliore esposizione, e forse per facilitare la relazione con altri edifici più a

valle (fig. 13).

Non sono solo le dimensioni, la posizione sulla sommità del colle alla

quota più elevata nonché l’articolazione in più ambienti a segnalare l’impor-tanza

dell’edificio: l’interesse particolare è dato dai resti di un rito di fonda-zione

rinvenuti sotto il pavimento del vano centrale (fig. 14). Due cerchi di

pietra tangenti tra loro, allineati su una linea esattamente est-ovest, sono con-tenuti

all’interno di un altro più ampio cerchio allo stesso livello, sempre di

pietre semplicemente infisse nel terreno, che è un conglomerato calcareo na-turale;

non restano tracce di fuoco. Accanto al più occidentale dei cerchi è sta-to

rinvenuto invece un oggetto della sfera magico-rituale: un osso di ovino la-vorato,

con due coppie di fori passanti, che probabilmente è uno strumento

musicale (iynx, cioè frullo, aerofono o cerca spiriti, fig. 15). I due cerchi di pie-tra

sono dunque il segno di un rito di fondazione con offerte incruente (vino,

latte, miele?), eseguito all’aperto prima della costruzione dell’edificio. Resta

difficilmente compatibile con la presenza del rito l’uso abitativo della costru-zione:

era comune a quasi tutte le culture antiche la tradizione di non abitare

mai nei o sui luoghi inaugurati in modo sacro; bisognerebbe comprendere se

il rito rendeva sacro questo luogo o se era solo un sacrificio propiziatorio alla

costruzione della casa e dell’intero insediamento, di cui non si è voluta sman-tellare

la struttura sacrificale. Alcuni casi, in abitazioni della stessa epoca sca-vate

a Padova, indicano l’esistenza di cerimonie di questo tipo con offerte le-gate

all’acqua e al fuoco nell’ambito della cultura paleoveneta.

Forse l’abitazione così particolare apparteneva al personaggio eminente

nella piccola comunità, il capo o lo stregone, anche se non è possibile esclu-dere

una funzione di luogo di culto o di riunione per i capi famiglia.

22

I resti scheletrici di alcuni feti e neonati (fig. 16) sono stati rinvenuti sot-to

il focolare ovoidale dell’ambiente più a nord, probabilmente sepolti qui se-condo

un uso frequente in area alpina in età preromana. Altre ossicine sono

state trovate sparse per la casa, con ogni probabilità accidentalmente sposta-te

insieme ad altri materiali dal focolare, quando questo venne disfatto nei ri-facimenti

romani dell’edificio (si veda il paragrafo sull’età romana). Su nu-merose

di queste ossa sono stati scoperti segni di taglio e fratturazione che

potrebbero essere connessi alle pratiche chirurgiche dell’embriotomia, com-piute

nell’antichità per estrarre dall’utero materno creature morte o mal po-sizionate

al momento del parto. La cruenta operazione abortiva comportava

lo smembramento del feto, talvolta precedentemente ucciso per pietà con

uno spillo di bronzo. Il procedimento viene descritto dalle fonti antiche sia

dal punto di vista scientifico, come nel trattato di ginecologia del medico gre-co

Sorano di Efeso, vissuto a Roma nel II secolo d.C., sia dal punto di vista

etico, come nel De anima scritto da Tertulliano nel 210 d.C.. La sepoltura in-terna

all’abitazione dei bambini piccoli o nati morti, che contravveniva alla ri-gorosa

norma, propria delle culture mediterranee, di tenere ben distinte le

case dei vivi da quelle dei morti, si giustifica con il fatto che i bambini fino ai

tre anni non erano considerati persone, ma forze vitali della famiglia. Come

tali, queste energie non dovevano essere disperse all’esterno, ma mantenute

all’interno della casa, nel luogo simbolico di questa, il focolare, o lungo le pa-reti.

L’approvvigionamento idrico del villaggio doveva trovarsi accanto all’edi-ficio,

a nord-ovest, dove in epoca moderna è stata realizzata la camera di cap-tazione

dell’acquedotto e dove dunque esisteva una sorgente.

Un’altra casa, più piccola e semplice ma dello stesso tipo (fig. 17), divisa

in due ambienti pressoché rettangolari, è stata trovata nel settore di scavo IV,

più in basso e più ad ovest, in un quartiere che sulla base dei materiali rinve-nuti

sembra avere avuto una funzione soprattutto artigianale e produttiva. La

tecnica edilizia è la medesima dell’edificio del V.

I materiali più significativi appartenenti a questa 1 a fase (figg. 18, 19, 20,

21, 22) - un frammento di orecchino in bronzo del tipo Montebello Vicenti-no,

frammenti di una fibula Medio La Tène, un frammento di ceramica grez-za

con inscritto l’alfabeto retico, una dracma venetica d’argento, oltre a nu-merosa

ceramica - sono la prova, da affiancare a quella architettonica, che

nell’insediamento tra la fine del IV secolo e l’inizio del III a. C. si fondevano

elementi sia della cultura retica di area alpina sia di quella venetica della pia-nura.

Alcuni materiali decontestualizzati dagli scavi clandestini, indicati da

testimonianze orali come provenienti dal colle di Flagogna Castelvecchio, tra

cui la grande fibula d’argento di tipo Certosa ed altri frammenti di bronzo e

di osso conservati a Ragogna, insieme a strutture edilizie di tipo simile alla

piccola abitazione del settore IV, messe in luce in recenti scavi della Soprin-23

tendenza ai Beni Artistici, Architettonici ed Archeologici del Friuli Venezia

Giulia, fanno ritenere che appunto a Flagogna sorgesse un altro insediamen-to,

contemporaneo a quello di Castelraimondo, che formava con questo e for-se

con altri villaggi vicini un sistema insediativo complesso.

Tra il II e la metà del I secolo a.C. l’insediamento fu dotato di nuove for-tificazioni

di tipo celtico: venne eretto un potente murus gallicus (figg. 23, 24)

messo in luce per una ventina di metri nel settore IV, ma conservato solo per

un’altezza di 30 centimetri circa, corrispondente al livello delle più basse fon-dazioni,

dato che l’alzato è stato asportato dal forte secolare dilavamento del

terreno lungo il pendìo. E’ costituito da un paramento esterno di pietre a sec-co

di medie e grandi dimensioni, da un riempimento a sacco in terra e pie-trame,

e da una struttura interna in legno; si aggancia agli elementi naturali

emergenti, rocce approntate dall’uomo. Al paramento si appoggiava, ne re-stano

tracce, un terrapieno o rampa interna in terra argillosa mista a minuto

pietrame, che aggiunto allo spessore del muro (m. 2,40/2,80), dà luogo ad

una fortificazione larga ben m. 11 (fig. 25, 26). Della struttura lignea restano

numerose buche di palo per sistemare pali verticali e obliqui (fig. 27); sul fon-do

di queste buche, come base d’appoggio di pali a terminazione piatta - più

adatti a resistere col maggior spessore all’umidità del terreno -, c’è una pietra

piatta, il più delle volte scistosa come quelle degli angoli dell’edificio del set-tore

V; in un caso si tratta di una delle piccole macine trovate nel settore IV,

in pietra proveniente dalla zona del Predil, un centinaio di chilometri più a

nord, rilievo noto per le miniere di ferro sfruttate fin dall’età protostorica.

L’ingresso verso ovest era probabilmente realizzato con un ripiegamento con-vergente

dei muri nord e sud, “a forcipe”, noto anche in altri siti (fig. 28), ed

era difeso da un fossato artificiale ancora ben riconoscibile, che taglia anche

oggi il colle. La tipologia del murus gallicus, diffusa nell’Europa celtica, e de-scritta

dettagliatamente da Cesare (De bello Gallico VII, 23) a proposito del-l’assedio

di Avaricum, è per il momento l’unico esempio individuato nel ver-sante

alpino italiano.

Le macine come le cote in granito per affilare lame, grandi scorie di la-vorazione

ferrose e colature di bronzo rinvenute in questo settore IV, fanno

pensare ad impianti produttivi, anche legati alla lavorazione dei metalli, in

questa parte dell’insediamento. Essi sarebbero posti a nord, in un versante

aperto e ventilato, come è necessario e come si ritrova costantemente nella

collocazione delle fornaci antiche.

Il villaggio in quest’epoca si ampliò ad ovest, all’esterno del castelliere più

antico, verso l’ingresso dell’abitato dove i due muri nord e sud convergeva-no,

probabilmente con un’espansione di carattere commerciale e produttiva

così importante da dover essere difesa dalle nuove opere di fortificazione.

L’insediamento pare rientrare tra i siti fortificati stabilmente abitati, di di-24

mensioni più ridotte e spesso più antichi dei grandi oppida, corrispondenti

probabilmente a quelli che Cesare (De bello Gallico II, 29; III, 1) e altre fon-ti

letterarie coeve definiscono “castella”.

Il problema della celtizzazione del Friuli settentrionale resta comunque

più che mai aperto, anche alla luce delle nuovissime scoperte, in particolare

la necropoli di Paularo ed il santuario di Raveo Monte Sorantri. Il murus gal-licus

di Castelraimondo costituisce, in questo quadro ancora non definito, un

ulteriore elemento a favore della presenza, alla metà del II secolo a.C., di per-sone

di cultura celtica transalpina, forse guerrieri mercenari, portatori di nuo-ve

idee e nuove tecniche edilizie in una società indigena tradizionale già dis-sestata

dalla forza attrattiva della cultura romana ormai ampiamente presen-te

in pianura e sulla costa.

I miglioramenti edilizi nell’insediamento di Castelraimondo sono opera

di popolazioni non romane per tradizioni e cultura, ma sempre più legate al

mondo romano, e sul finire di questa fase esplicitamente aperte ai commerci

con esso, come rivelano anfore, ceramica a vernice nera e ceramica grigia di

produzione padana qui ritrovate. La concomitante presenza di scorie, bloc-chetti

di ematite provenienti dalle miniere del Canal del Ferro e pietre dalla

stessa zona mineraria, sono indizi che dal II secolo a.C. l’espansione del vil-laggio

era legata ai commerci dei minerali alpini, alle loro lavorazioni e so-prattutto

al loro trasporto verso l’area centroveneta: era una tappa lungo una

scorciatoia (la vallata dell’Arzino), o forse un percorso più sicuro, di crinale,

lontano dalle bassure pericolose del Tagliamento.

Il potenziamento di Castelraimondo sembra conseguente alla fondazione

della colonia latina di Aquileia (181 a.C.) e all’impulso che questa portò nel-l’economia

non solo dei territori limitrofi, ma anche dell’entroterra alpino. La

grande necessità di materie prime che comportò la costruzione della nuova

città romana, in particolare il legname, ma anche le derrate tipiche di un por-to

commerciale e militare come carni salate, formaggi e lane, pece, tessuti,

cordame, trovarono risposta non tanto nell’immediato retroterra colonizzato

e dunque di uso strettamente agricolo, con colture intensive escludenti pa-scoli

e aree boschive, ma appunto in questa fascia pedemontana e mediocol-linare

dove la tradizionale economia della selva, dell’allevamento e della cac-cia

si integrava con le nuove prospettive del trasporto e del commercio, sen-za

essere ostacolata dall’impiantarsi di un’agricoltura parcellizzata.

 

2. Un insediamento militare (l’età romana)

 

La militarizzazione del Friuli avvenne per opera di Giulio Cesare tra il 58

e il 51 a.C. a seguito del saccheggio di Tergeste (Trieste) da parte dei Giapidi

(De bello Gallico I, 10). Vennero così installate a guardia permanente di que-25

sto territorio almeno quattro legioni e furono costruiti diversi centri fortifi-cati:

i castella e gli oppida di Tricesimo, Osoppo e Gemona, nonché la stessa

città di Iulium Carnicum (Zuglio).

Successivamente, durante le campagne danubiane dell’età augustea, que-sta

zona non fu mai completamente smilitarizzata, nonostante la linea delle

Alpi Giulie fosse in quell’epoca un retrofronte abbastanza pacifico. Il con-trollo

militare delle vallate alpine fu mantenuto ed anzi rinforzato per assicu-rare,

oltre al controllo delle vie militari, anche il buon funzionamento del cur-sus

publicus (servizio postale militare) istituito da Augusto per dirigere da

Aquileia le armate in Germania e per reprimere il brigantaggio, pericoloso

per mercanti, viaggiatori e pastori. Le torri di guardia e di segnalazione a vi-sta

collegavano i distaccamenti militari.

In questo quadro generale rientra la torre quadrata del settore IV (figg.

29, 30, 31), costruita tra la fine del I secolo a.C. e l’inizio del I d.C., come in-dica

la datazione dei materiali rinvenuti nelle fondazioni: frammenti di anfo-re,

una fibula di tipo “Aucissa” e monete romane tardorepubblicane. La tor-re,

con i suoi m. 5,90 di lato di cui restano pochi filari di pietre in alzato, ri-vela

l’importanza di Castelraimondo nella gerarchia degli abitati indigeni ro-manizzati

della zona. La tecnica costruttiva di questo nuovo edificio è com-pletamente

differente rispetto all’edilizia locale preromana: spezzoni di pie-tra

locale calcarea, di piccole dimensioni, sono regolarizzati solo nella faccia

esterna del muro e legati da ottima malta; la loro disposizione è a dente ri-spetto

alle due facce - interna ed esterna - della muratura: la punta della pie-tra

grossolanamente piramidale è volta verso l’interno del muro, il cui nucleo

centrale è costituito da pezzame più minuto ed irregolare, gettato a sacco e

legato con malta. L’esterno era intonacato come in altre torri analoghe lungo

il limes (confine dell’impero), e la copertura del tetto era in laterizi. Come in

altre torri alpine romane, alcuni elementi di rinforzo degli angoli e dei con-torni

delle aperture, quali architravi e archivolti, erano in travertino. Lateral-mente,

a nord e a sud, due coppie di pilastri di sostegno (fig. 32), contempo-ranei

alla costruzione della torre, si legano ad essa tramite un’intercapedine

di malta e non con ammorsature nella muratura; probabilmente la loro fun-zione

era anche di raccordo con le mura difensive. La connessione tra la tor-re

e il murus gallicus è evidente, anche se non è stato possibile metterne in lu-ce

il punto di contatto; il nuovo edificio si inseriva a difesa del punto più de-licato

e più appariscente della fortificazione: l’ingresso ovest.

La torre, oltre alla funzione difensiva, di controllo e di segnalazione, as-sumeva

un valore di segno della potenza romana e quindi di deterrente psi-cologico

nei confronti delle popolazioni indigene, non abituate a questo tipo

di costruzioni che rendevano esplicito il fatto che l’impero si era appropriato

del territorio.

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Le fonti antiche (Velleio 2, 95, 1-3; Cassio Dione 54, 22, 5; Ovidio, Tri-stia,

IV, 2, 37-42; Orazio, Carmina, 4, 14, 10-13; Floro 4, 12, 4 ss. e 2, 22) ri-cordano

come ferocissima la resistenza delle popolazioni alpine alla penetra-zione

dell’armata di P. Silius Nerva nel 16 a.C. e particolarmente duri i prov-vedimenti

presi dai Romani: rastrellamenti, distruzione degli insediamenti

montani fortificati e delle rocche della popolazione locale alpina, deportazio-ne

in massa degli uomini come truppe ausiliarie sul limes germanico. Oltre al-la

Val Trompia, la Val Camonica, la Valtellina, furono interessate a questi av-venimenti

anche le valli minori dell’alto Friuli, attraverso le quali erano pe-netrati

in Istria i Pannonici e i Norici che il generale Nerva ricacciò indietro,

nell’ambito delle sue operazioni alpine.

Nel settore V, in questa 3 a fase, il grande edificio subì il rifacimento del

tetto in laterizi, tegole ed embrici, e altre migliorìe nel muro ovest e nella pa-vimentazione

- sia a scaglie in un battuto di malta sia in sola malta -, che com-portarono

il disfacimento del focolare dell’ambiente settentrionale, ora divi-so

da un elemento ligneo, con la relativa dispersione dei resti ossei infantili,

da quest’epoca non più seppelliti all’interno degli edifici del villaggio. I cam-biamenti

rivelano la cultura edilizia romana, fondata sull’uso di un eccellen-te

legante.

Ora l’edificio è confrontabile con le costruzioni private di tutta la Cisal-pina

(cioè l’Italia settentrionale entro la cerchia alpina) ed in particolare con

quelle di Iulium Carnicum (Zuglio), costituite da ambienti di piccole dimen-sioni,

allineati e contigui, rinvenute sotto il lastricato del foro.

Sul balzo a nord della casa, alla fine del I secolo a.C., venne costruita

un’altra torre quadrata di vedetta. Sono rimasti evidenti gli ammorsamenti di

grossi blocchi parallelepipedi e l’approntamento della roccia per ricevere

l’ambiente di forma quadrata. Tutto è stato asportato nel tempo e ulterior-mente

dissestato dalla moderna camera dell’acquedotto che si appoggia al ri-lievo.

Lungo il pendìo sono i resti del crollo della torre, in blocchi parallele-pipedi,

uguali e nella stessa tecnica delle migliorìe del muro ovest della casa,

e quindi contemporanee ad esse. Secondo i geologi quasi tutto l’attuale bal-zo

roccioso a ridosso del quale si trova la casa, è costituito dalla maceria ri-calcificata

di questa torre che doveva essere imponente (fig. 33). La posizio-ne

è dominante su entrambe le vallate dell’Arzino e del Tagliamento, molto

migliore di quella della torre del settore IV.

A questa fase va riferito anche il muro in pezzame di pietra legato con

malta individuato nello scavo 1985 nel settore I, trenta metri più in basso e

più a sud del V. Era forse parte di un edificio o di strutture usate in quel pe-riodo,

come indicano i materiali rinvenuti. Nello stretto terrazzo ancora sot-tostante,

uno scavo clandestino del 1990 ha messo in luce un altro muro ana-logo:

sembra che in questa 3 a fase il versante sud del colle fosse occupato da

27

una serie di costruzioni altimetricamente correlate, ormai irrecuperabili per il

dissesto del pendìo e per i numerosi scavi clandestini (fig. 34).

Continuava ad essere attivo il quartiere artigianale del settore IV, che pro-duceva

anche leghe metalliche tipiche della romanità. Potrebbero essere fab-bricate

localmente le numerose punte di lancia e di freccia trovate qui, o le

due piccole matrici in pietra per ghiande missili (proiettili) metalliche, rinve-nute

al settore V. Si nota la comparsa di vasellame fine da mensa, ceramica

comune e a pareti sottili, prodotta nell’area padana, sempre nel settore V

(figg. 35, 36, 37, 38, 39).

Si manifesta una differenziazione tra i due grandi settori di scavo: il IV era

più accentuatamente artigianale e di rango inferiore rispetto al V, con una

percentuale di anfore, frammentarie, decisamente notevole, dalla seconda

metà del I a.C.: l’approvvigionamento di derrate alimentari, contenute e tra-sportate

in questi recipienti, e il numero di oggetti d’uso era sensibilmente

aumentato. La quantità di resti anforari nell’arco di tempo compreso tra la

metà del II secolo a.C. e la metà del II d.C. (oltre 100 contenitori) è insolita

negli insediamenti d’altura alpini, tanto da far pensare ad un centro di com-mercio

e di smistamento piuttosto importante: il materiale proveniva dai

grandi centri urbani della pianura romanizzata; non è possibile sapere se si

trattasse di uno scambio con prodotti dell’economia tradizionale (ancora me-talli,

lane, formaggi, legname) o se questa migliorata qualità di vita fosse le-gata

alla presenza di personale militare o civile, ma comunque alle dipenden-ze

del potere centrale, abituato ad un altro tenore di vita da non abbandona-re

completamente neppure in questa sede decentrata.

Per un paio di secoli non ci furono sostanziali modifiche nelle strutture

edilizie, eccellentemente mantenute: all’inizio del III secolo d.C. il rafforza-mento

delle fortificazioni e dei punti di controllo esistenti, dopo le prime in-cursioni

dei germanici Quadi e Marcomanni nel 167 d.C., faceva parte della

nuova strategia dell’impero, che non si limitava alla rigida difesa di confine e

a quella arretrata che intercettava il nemico nel territorio imperiale, ma esten-deva

un più stretto regime di controllo anche alle retrovie, agli assi viari val-livi

ed in particolare all’area alpina orientale.

Intorno al 275 d.C., crollarono i tetti degli edifici nei settori IV e V: l’even-to,

un sisma o un violento fatto militare, è datato in tutte le strutture dal ritro-vamento

di monete di quegli anni, come quelle dell’imperatore Probo (276-282

d.C.; si veda la fig. 40) o di Floriano (275 d.C.), negli strati di crollo. La cata-strofe

non fu inattesa: le abitazioni erano vuote degli occupanti, ma non abban-donate;

vasetti di ceramica, soprattutto grezza, in entrambi i settori di scavo so-no

stati trovati lungo il perimetro degli ambienti frantumati e perfettamente ri-componibili,

caduti da mensole sospese alle pareti o collocati lungo i muri.

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L’importanza strategica del sito è dimostrata dagli immediati restauri e ri-costruzioni

delle strutture, appartenenti alla 4 a fase di vita dell’insediamento.

Nel settore V (figg. 41, 42, 43), il grande edificio fu ampliato nella parte

nord da nuovi muri aderenti al balzo roccioso e non più distaccati pericolosa-mente

da questo. Sono in blocchetti di pietra regolarizzati solo sulla faccia

esterna, disposti sui margini esterno ed interno del muro riempito poi con pez-zame

lapideo secondo la tecnica in uso nell’arco alpino romano, ma utilizzan-do

abbondante malta di ottima qualità, arricchita da grossi grumi di laterizio

grossolanamente macinato (caratteristica edilizia che sembra comparire fuori

dall’Italia nel III secolo e poi diffondersi anche nella pianura padana). Il crollo

del precedente edificio fu utilizzato come sottofondazione pavimentale che mi-gliorò

la qualità dell’abitazione, isolandola dall’umidità del terreno, e permise

di unificare i due grandi ambienti settentrionali, alzando il piano di calpestìo e

cancellando la base del muro divisorio. Le pareti furono intonacate, come te-stimoniano

numerosi frammenti, talora anche ricurvi, come quelli in prossimità

di porte o finestre. Il coperto era sempre in laterizi: tegole ed embrici.

La torre del settore IV venne ripristinata nella sua altezza. La casetta di

questo settore fu restaurata nell’angolo sud-est, sempre senza uso di leganti;

la copertura era sempre in materiale deperibile, forse paglia, fermata da scan-dole

di arenaria.

I materiali rinvenuti - una notevole quantità di armi, fibbie dell’abbiglia-mento

militare - indicano il carattere ormai completamente militare del sito.

Alcuni pezzi, tra cui un tribulus (strumento con raggi acuminati da gettare

nel terreno per ostacolare l’avanzata della cavalleria), rinvenuto nei pressi

della casa del settore IV, potrebbero esser stati fabbricati in loco (figg. 44-51).

Alla fine del IV secolo ci fu un generale spostamento della popolazione

civile sulle alture, con una nuova utilizzazione di strutture precedenti di ca-rattere

prevalentemente militare.

La notizia riferita da Agostino (Civ. V, 26) che dopo la battaglia del fiu-me

Frigido (394 d.C.) con la quale l’imperatore Teodosio I vinse i ribelli pa-gani

guidati dal franco Arbogaste, in alcune fortezze alpine statue di Giove

furono buttate dalle alture, si lega suggestivamente all’antichissima leggenda

secondo cui un vitello d’oro sarebbe stato gettato dalla cima del colle di Ca-stelraimondo

nell’Arzino.

L’assedio e la presa di Aquileia da parte del visigoto Alarico nel 401 e

quindi la sostituzione da parte dei Romani dell’asse di comunicazione Aqui-leia-

Milano con quello Milano-Ravenna, tagliarono fuori il Friuli dalle strut-ture

portanti dell’impero, contribuendo all’instaurarsi di nuovi modelli inse-diativi

arroccati sulle alture. I refugia ben noti in area alpina, erano ampi re-cinti

fortificati, in grado di accogliere popolazione e bestiame, cisterne, de-positi,

abitazioni attorno all’edificio di culto cristiano. I refugia riconosciuti

29

in area austriaca, svizzera e slovena, sono caratterizzati però da un’occupa-zione

discontinua e da una tecnica di costruzione sommaria, dettata dalla ne-cessità

di erigere in fretta una protezione contro un pericolo imminente; solo

più tardi, dal VI secolo, avranno torri e postazioni strategicamente studiate,

con l’insediarsi all’interno del refugium di un’autorità religiosa e civile insie-me

che coordinerà la comunità. Castelraimondo comunque, per le caratteri-stiche

morfologiche del colle, non si prestava a dar rifugio a una popolazione

numerosa con armenti, magazzini e depositi: anche sotto questo aspetto, la

sua natura militare sembra confermata; inoltre le grandi ville dell’alta pianu-ra

continuano ad essere abitate per tutto il IV secolo. I soldati potevano es-sere

milizie territoriali in funzione locale o truppe ausiliarie della base di Con-cordia

o di Aquileia.

La fortezza restò militarmente attiva per tutto il IV secolo, nell’ambito

dell’organizzazione difensiva romana basata su un duplice sistema di fortifi-cazioni:

uno sul limes renano-danubiano e un secondo nella regione alpina.

La zona difensiva nord-orientale divenne di straordinaria importanza fra IV

e V secolo: nel territorio di Forum Iulii (Cividale) dalla seconda metà del III

secolo e soprattutto dall’imperatore Diocleziano (284-305 d.C.) in poi, era in-serito

il comando, sempre più cresciuto d’importanza, a protezione dell’in-gresso

in Italia da nord-est.

Intorno al 430 d.C. un evento bellico di grande violenza distrusse l’insedia-mento

di Castelraimondo: nel settore V un incendio devastò l’edificio ad ecce-zione

dell’angolo nord-est; con il fuoco e il successivo abbandono le pietre cal-caree

della torre crollata si ricompattarono, confondendosi con la roccia natu-rale.

Nel settore IV furono accanitamente abbattute la torre e le altre case.

Si concluse con questa furia distruttiva, che dimostra l’importanza strate-gica

della postazione vinta, l’ultima fase di vita romana del colle.

 

3. Il declino dell’insediamento (l’età post-romana)

 

Dopo la distruzione della metà del V secolo d.C., anche Castelraimondo

fu abbandonato per alcuni decenni, in concomitanza con la distruzione di

Emona (Lubiana), di Iulium Carnicum, degli edifici romani di Invillino, con

la gravissima crisi di Aquileia e con l’abbandono delle ville rustiche dell’alta

pianura friulana: erano gli anni del progressivo disfacimento dell’Impero

d’Occidente (la caduta, come si è detto, è del 476 d.C.). In un quadro di ir-reversibile

dissesto, si aveva la rapida trasformazione degli schemi del popo-lamento

romano, rimasti sostanzialmente inalterati per quattro secoli. Le cau-se,

molteplici e da lungo tempo presenti nel sistema di potere dell’impero,

convergendo tutte insieme, determinarono questa crisi.

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Le strutture del settore V, spogliate delle pietre sciolte e dell’intonaco da

trasformare in calce, furono rioccupate nella parte settentrionale più protet-ta,

sfruttando i muri ancora in piedi (fig. 52); la copertura era eterogenea, for-mata

da laterizi di recupero e strame. Furono costruiti annessi rustici in legno

e palizzate. Animali e uomini convivevano ora negli stessi spazi, e ciò pro-dusse

uno strato archeologico di terreno nerissimo (fig. 53) - il “dark earth”

tipico dell’età altomedioevale anche in ambito urbano -, ricco di reperti ce-ramici

e scarti di pasto, dovuto alla difficoltà di controllo dei fattori ambien-tali

e dello smaltimento dei rifiuti, che rivela un netto scadimento nella qua-lità

di vita dell’insediamento.

Il settore IV pare in questa 5 a fase abbandonato, anche se è complessa e

non precisabile la datazione della ceramica grezza post-romana che resta a

lungo identica nel tempo e che costituisce praticamente la maggior parte di

materiale rinvenuto in questi strati.

Nessun reperto ceramico o metallico è riferibile a culture non latine, cioè

ai Germani o ai Longobardi che irruppero nel territorio e che sembra fosse-ro

attestati nella vicina Anduins. L’attacco longobardo diretto alla fortezza di

Forum Iulii e non ad altri centri, dimostra che quella era non solo la sede

amministrativa dell’intera zona, ma l’anello principale della catena di prote-zione

dell’Italia del nord. Sulle alture e nella pianura di questa zona militare

erano disposti centinaia di castelli e fortini: ce lo tramandano le fonti dell’e-poca,

come Venanzio Fortunato che in un passo della Vita S. Martini (4, 655-

656) descrive l’itinerario ancora in uso nel VI secolo lungo il Tagliamento e

la strada pedemontana verso il Veneto, controllata da alcuni castella tra cui

c’era anche Castelraimondo: il termine castellum indica che l’aspetto arroc-cato

e fortificato dichiarava ancora nel VI secolo la natura militare dell’inse-diamento

che il nostro aveva avuto in passato, ma ora non più. Sembra più

probabile si trattasse di un refugium, con abitazioni in legno; di edifici reli-giosi

per ora non c’è traccia. Unico elemento religioso cristiano, ascrivibile a

questa fase o alla successiva, è la presenza di una buca di palo alla sommità

del rudere della torre del V, nel punto più alto del colle: su una della pietre

che contornano come di consueto la buca, è profondamente incisa una croce

con estremità apicate; non è escluso, ma è impossibile accertarlo, che nella

buca fosse infissa una croce di legno.

L’insediamento di Castelraimondo, rifugio di pastori e di poverissima

gente, proseguì fino alla fine del VII secolo d.C., quando un terremoto ab-batté

i residui muri del settore V, causando un nuovo lungo abbandono che

chiuse la 5 a fase abitativa.

Sul suolo formato da un secolare uso prativo, probabilmente nel IX se-colo,

in un periodo non precisabile ulteriormente, fu costruito un nuovo

complesso nel settore V. Era integralmente in legno (figg. 54, 55). Dell’am-31

biente più grande, l’unico riconoscibile, si leggono in negativo ancora oggi le

impronte di appoggio delle strutture, sulle pietre del crollo della torre ai pie-di

del balzo roccioso. Una parte della struttura era certo un fienile, come te-stimoniano

pollini di erbe fiorite individuati dalle analisi archeobotaniche, in

assenza di qualunque testimonianza di strutture.

Tra la fine del IX e l’inizio del X secolo, anche il settore IV offrì un rifu-gio

temporaneo o una modestissima abitazione nei ruderi della torre ancora

in piedi.

Il periodo corrisponde ad una ripresa economica e demografica del Friu-li,

legata al miglioramento climatico, nonostante le terribili incursioni degli

Ungari (fig. 56).

In queste ultime fasi, in cui il materiale archeologico quando non è cera-mica

grezza, pressoché immutabile nel tempo, è però rimescolato e prove-niente

dagli strati inferiori, sono possibili le datazioni spesso grazie alle ana-lisi

al carbonio-14 (si veda il paragrafo sullo studio dei materiali).

E’ per queste analisi, che datano alcuni fuochi tra l’885 e il 950, che nei

ruderi della torre del IV si può ipotizzare un rifugio periodico o occasionale

da parte probabilmente di pastori o viandanti.

L’abbattimento per cause naturali od umane del muro di fortificazione sul

ciglio nord, che conteneva anche il terrapieno artificiale retrostante, causò lo

smottamento e accelerò il già accentuato dilavamento che trasformò l’aspet-to

del pianoro, spargendo pietre degli edifici antichi su tutto il pendìo nord

del settore IV.

 

4. L’abbandono, il castello e la chiesa (l’età medioevale e rinascimentale)

 

Nei secoli seguenti la sommità del colle fu destinata ad un uso esclusiva-mente

agricolo e prativo. Il toponimo locale Pustòta, cioè luogo coltivato e

poi abbandonato, che designa il settore V, testimonia questo uso, di cui re-stano

tracce forse tardo-rinascimentali - come indicano alcuni frammenti ce-ramici

rinvenuti - nelle fosse per viti o alberi da frutto che comportarono la

spoliazione di grandi pietre da reimpiegare.

Sul costone più occidentale, nei saggi dei settori di scavo II e III, aperti

in seguito agli interventi clandestini, sono stati recuperati materiali ceramici

e metallici riferibili ai secoli XIII e XIV, mescolati a quelli delle epoche pre-cedenti.

Le murature rinvenute e un pozzo sono di età diverse. Dal momen-to

che nei settori IV e V, indagati sistematicamente, non sono stati pratica-mente

rinvenuti oggetti riferibili al Medio Evo, probabilmente il castello me-dioevale,

teatro di fosche vicende nelle lotte tra il Patriarcato di Aquileia e il

Ducato di Gorizia, e documentato unicamente dalle antiche cronache rac-32

colte dal Biasutti, era situato in questa parte del colle. Da collocarsi tra l’an-no

Mille e la fine del XIII secolo, a mezza costa, in un’occupazione ex novo

di una parte del colle non ingombra di ruderi precedenti, forse era a piccoli

nuclei di case, come sostiene Biasutti sulla scorta della sua documentazione,

e non era stato voluto come elemento di aggregazione e riorganizzazione del

territorio, ma si qualificò come un intervento politico e di potere molto spe-cifico;

per questo, una volta modificatasi la situazione politica che lo aveva

determinato, il castello non ebbe prosecuzione insediativa. Le cronache par-lano

dell’ultima, violenta e radicale distruzione nel 1348, e i pochi resti, scon-volti

dagli scavi clandestini, sono illeggibili.

Ai piedi della collina, in località Sintignella (settore VI), a 300 metri a est

del quartiere abitativo romano, sorse nel XIII secolo la chiesetta di S. Agne-se,

demolita intorno al 1609. Orientata ad est, era ad unica navata, con pian-ta

rettangolare ed abside quasi quadrata, costruita in pietre squadrate in pic-colo

apparecchio, tecnica tipicamente medioevale (fig. 57). E’ stata indagata

dagli scavi del 1988 (fig. 58). E’ apparsa completamente depredata di tutti i

materiali edilizi asportabili, pavimenti e sottofondazioni comprese, secondo

una prassi diffusa nei secoli XVII, XVIII e XIX in questi luoghi e rivelatrice

di grandissima povertà.

Il poco materiale rinvenuto nello scavo, in prevalenza frammenti laterizi,

ceramica grezza e comune, confermano la datazione al XIII secolo dell’edifi-cio

sacro, che non pare connesso al castello medioevale, molto distante ad

ovest, ma sembra piuttosto legato allo sviluppo degli inferiori borghi di For-garia,

che caratterizzerà l’età moderna, determinando l’abbandono definitivo

del colle.

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